Vivian Maier, la celebrazione di se stessi
Nel 2007, ad un'asta giudiziaria, tale John Maloof acquista in blocco e senza conoscerne il contenuto due scatoloni pieni di materiale fotografico. Ritratti di New York e Chicago, molti non ancora sviluppati. Nell'era dei social network John carica il materiale ritrovato su Flicker e, a seguito del grande successo riscosso, viene incoraggiato a scoprire a chi appartenessero gli scatti.
Viene cosi alla luce Vivian Maier, tata statunitense, e la sua vasta e variegata opera. L'ho vista di recente in mostra a Monza e passeggiando, fra le sue opere e ammirando i suoi scatti, sorge spontanea la domanda...cosa definisce un'opera d'arte?
Della Maier non sappiamo quasi nulla se non che era una tata e che visse tutta la sua vita fra Chicago e NY con un solo periodo di lontananza per un viaggio che la condusse in prima in India, Filippine e Thailandia e poi in Europa in Francia e in Italia. Viaggi documentati con numerosi scatti.
Ridotta sul lastrico da problemi finanziari Vivian fu costretta a vendere tutto ciò che possedeva,compreso tutto il suo materiale fotografico.
Gli scatti sono molti e vari: scene di vita di strada, paesaggi urbani, ritratti di passanti e autoscatti, moltissimi autoscatti. Vivian si ritraeva in ogni superficie riflettente: specchi, vetrine, finestrini di autobus, acqua, oggetti lucidi...ma spesso non è nemmeno il suo volto ad essere riportato sulle foto, solo la sua ombra. L'antesignana dei selfie di oggi non guardava mai in camera e, contrariamente alle foto che oggi popolano instragram, raramente appariva al suo meglio.
Cosa voleva dirci la Maier con le sue foto, non lo sapremo mai, Vivian è scomparsa nel 2009 senza conoscere la fama e l'ammirazione del grande pubblico. Forse della sua opera affascina più la storia, che non gli scatti di per sé. Al contrario dei grandi artisti lei non cercava la luce e l'inquadratura migliore, non ripeteva molte volte la foto fino ad arrivare alla perfezione. Come se volesse solo cogliere il momento, l'attimo di bellezza fugace, una qualsiasi cosa che cogliesse e solleticasse la sua attenzione.
Non sono quelli che possono essere definiti "scatti d'autore" ed è proprio questo il punto.
Girovagando per la mostra e parlando con un'amica mi è venuto il paragone "è come se esponessero fra 50 anni il mio feed instagram e tutti gli scatti del mio cellulare". Le didascalie che accompagnano le opere recitano, in sunto: "Vivian scattava per sé, per la necessità di farlo, e non per gli altri", ed è proprio questo il punto. Dalla mole di materiale recuperato, la Maier fotografava compulsivamente, continuamente. Sperimentava, a volte nemmeno sviluppava i rullini. Lo faceva perché ne aveva fisicamente bisogno. Fare fotografie era il suo modo di vivere e di interpretare la vita, i suoi sentimenti, il mondo. Quanti di noi fanno fotografie, dipingono o scrivono, senza mai mostrare le nostre produzioni, chiudendo tutto in un cassetto? Lo facciamo per noi stessi è vero, perché ne sentiamo il bisogno, perché ci fa sentire bene e vivi. Lo facciamo al di là del resa finale. Per questo non si può giudicare l'opera di Vivian Maier, perché è cosi personale e privata, che non può essere esposta al giudizio del pubblico. E' come se qualcuno ritrovasse i miei quaderni fra cinquant'anni, e fosse cosi pazzo e scriteriato da volerli pubblicare. Da un parte ne sarei onorata forse, ma dall'altra mi sentirei violentata. Vivian non ha mai fatto nulla per portare la sua opera a conoscenza del pubblico, forse perchè non era questo ciò che lei voleva. La Maier non creava per mostrare se stessa all'esterno, ma per guardarsi dentro.
La mostra a Vivian Maier celebra, non tanto la bravura in sé dell'artista, le inquadrature o la prospettiva ma la necessità di creare fine a se stessa, per sentirsi vivi. Il bisogno di fotografare, scrivere o dipingere, senza curarsi del talento, della bravura o della voglia di apparire. Celebra un istinto innato in ognuno di noi, la necessità di esprimere se stessi.
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