Don't be afraid here

Come per tutti gli italiani anche per noi Agosto vuol dire vacanze e vacanze quest’anno ha significato partire.
Per me gli anni non si misurano da gennaio a dicembre, il mio capodanno arriva a settembre. Il nostro anno iniziato nel settembre 2014 è stato un anno di evoluzione, cambiamento e fatica tanta fatica. E’ arrivata casa, la nostra casa sognata, sperata, costruita e sofferta pezzo dopo pezzo. Siamo entrati in dicembre, il giorno di Natale. Tanta era la voglia che non abbiamo neppure aspettato che fosse pronta. Mancava tutto quando siamo entrati, illuminavamo con le torce la sera e appendevo i viveri ad un gancio fuori dalla finestra. Ma avevamo un tetto, un letto e avevamo noi. Tanto bastava.
É cresciuta cosi tanto la nostra casa intorno a noi in questi mesi, e cosi siamo cresciuti noi dentro di lei. E finalmente dopo tanta fatica, ci siamo concessi un regalo, ci siamo concessi di vivere un piccolo sogno. Ci siamo concessi l’America, quell’America che fa storcere il naso ai radical chic. Segue di conseguenza un doveroso e sacrosanto resoconto di viaggio, sperando di sfiorare ma evitare la banalità dei post di viaggio, nei limiti del possibile.

Tappa numero 1: The concrete jungle where dreams are made of, New York. La nostra New York non parla di taxi gialli, luci, grattacieli e led luminosi. La nostra Grande Mela parla di tre cose:
-       -   Fra la torre nord e la torre sud sorgeva un albero di pere. Tra l’inferno di fiamme e macerie dell’11 settembre il pero fu ritrovato vivo. Ricoverato ad Harlem fu amorevolmente curato e una volta in forze ripiantato nella sua originaria sede. Quel pero si staglia oggi fra le due immense e struggenti fontane commemorative. Simbolo orgoglioso della speranza che non muore, della vita forte e coraggiosa che non può essere spenta. Ho toccato le sue foglie, stretto i sui rami. Sentito la sua forza.
-        -  I turisti si accalcano, a centinaia davanti al toro di Wall Street. E’ praticamente inutile sperare di poter fare una foto senza altri 20 turisti giapponesi a farti compagnia. La gente si accoda per toccare e fotografare “palle e corna”. Proprio li accanto sorge un palo. Su qual pilone è sventolata per l’ultima volta la bandiera inglese, prima della sconfitta finale e per la prima volta, lassù, hanno sventolato stelle e strisce.
-         - Grand Central, piano interrato, in fondo sulla sinistra. Soffitto a cupola. Posizionandosi ai lati opposti, faccia contro il muro, si può parlare come al telefono.

Tappa numero 2: Space Jam, grunge e monorotaie, siamo a Seattle, ovvero:
-         - Colazione all’inglese nel ristorante più famoso della città, uova strapazzate, caffè americano e alla tv proiettano ET
-        -  Adesivi su cartelli, pareti, segnali stradali, pali della luce, porte. Adesivi ovunque. Di band, di citazioni, di piccoli disegni. Seattle è una città di musica, di arte e di creazione. É la città grigia più colorata che io abbia mai visto.
-         - Un autobus che attraversa la città, su per le ripide salite fino a Capitol Hill, e un ragazzo asiatico coi capelle nerissimi e laccatissimi, pettinato di lato e con la riga. Solo uno e un solo capello bianco attraversa la testa esattamente nel mezzo.
-         - Giocare a Pacman in un vecchio viodegioco anni 80 in un localaccio di quart'ordine in perifieria.

Ma Seattle più di tutto è stata la musica, quella che si respira in ogni angolo della città, che vibra da ogni locale, dalla mattina presto alla sera a tarda ora. Ogni angolo di strada a un suo artista, una sua locandina, una musica di sottofondo. Seattle è un grande palcoscenico, dove tutti possono salire e a nessuno è negato il proprio quarto d’ora di popolarità.

E infine Tappa numero 3: Canada mordi e fuggi, 24 ore a Vancouver.
Se ti chiedono “cosa hai visto a Vancouver?” sei per forza di cose obbligato a rispondere “niente”.  In Canada non è tanto quello che vedi, tanto quello che senti. Aria pulita, chiara, fresca, cristallina. Aria che ti attraversa e ti ripulisce da un anno di tristezza, ti sgombera la mente. Luce abbagliante che si riflette sul verde intenso degli alberi, sull’acqua fredda e croccante. Un cielo blu, e brillante che sembra caderti addosso.  E poi alberi, alberi di tutti colori giallo, rosso, oro e verde. In riva al lago, una scritta. “don’t be afraid here”.

Come si scrive un racconto di viaggio senza scadere nella banalità? Temo di non saperlo, ma spero di esserci riuscita. A chiunque legga, l’ardua sentenza.



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