Vita da zavorra
Quando ero piccola, nei fine settimana, andavamo spesso in
montagna a casa dei nonni. La domenica sera, immancabile, uno dei grandi riti
italiani: la coda in autostrada. Fermi per ore, spesso sotto il solleone, una
montagna sulla destra, il lago sulla sinistra.
Guardavo fuori dal finestrino, abbassato nella speranza di
ricevere un pò di frescura, le moto che, agili, zigzagavano fra un'auto e
l'altra. In fila indiana, casco e stivaloni, saltavano tutta la coda e
sfrecciavano via veloci. Molti erano soli, ma molti avevano aggrappata dietro
una ragazza. Li guardavo e immaginavo un giorno di essere io la ragazza sul
sedile posteriore.
La prima volta che sono salita su una moto avevo 18 anni o
giù di lì. Se ripenso a come ero vestita la me di oggi si prenderebbe a calci.
Infradito, pantalone a zampa, canotta (a mia discolpa era luglio ed era il
primo appuntamento). Su una Ducati Monster gialla mi ha portato a prendere un
gelato sul lago. In questo tripudio di cliché e con una delle persone più
banali e noiose che io abbia mai incontrato in vita mia, ricordo perfettamente
l'emozione di sentire per la prima volta il vento addosso, piegare in curva, la
velocità. Non avevo idea di dove mettere le mani, a cosa aggrapparmi e avevo il
terrore di perdere le scarpe...ma è stato comunque un colpo di fulmine.
Per tornare in sella ho dovuto aspettare qualche anno. Avrò
avuto sui 25 anni. Con il mio capo dovevamo presenziare ad una premiazione
fuori Milano e senza tanti complimenti mi fu messo un casco in mano. Lievemente
meno inesperta della prima volta, se avvisata per tempo, sono sicura che avrei
saputo far di meglio che non un tacco 12, un pantalone a sigaretta e una
camicia bianca. Anche in questo caso una Ducati Monster ma rossa. Andare in
moto a Milano è molto diverso che sul lago d'estate. Traffico, continui stop ai
semafori, portiere che si aprono all'improvviso, parcheggi in doppia fila,
tram....non posso certo dire di essermela goduta, senza contare lo stato della
mia camicia bianca alla premiazione.
Da quel giorno, per molti anni, non ha più avuto occasione
di ritornare in sella, poi sei arrivato tu. Ti ho visto, per la prima volta,
vestito da motociclista. Vestito, come ora so, deve essere un motociclista.
Stivaloni, giacca di pelle,protezioni, casco sottobraccio. Eri bellissimo. Mi
hai portata a fare un giro sulla tua Suzuki blu al quarto appuntamento, un
mercoledì pomeriggio di dicembre con un cielo terso e un sole splendente che
sembrava fatto apposta per noi. Questa volta ero pronta, o quasi, stivali,
jeans, piumino e guanti. Ma tu eri diverso, tu eri speciale. Mi hai insegnato
che in moto si sale solo con le necessarie protezioni, non importa se è soltanto
un giro occasionale. Mi hai insegnato che se tieni a qualcuno lo proteggi, anche se è solo il primo appuntamento o solo un
collega di lavoro. Ti sei tolto il tuo para-schiena e lo hai dato a me, mi hai
aiutato a fissare bene la chiusura del casco. Prima di salire mi hai spiegato
dove potevo aggrapparmi, come comportarmi durante le curve, come non scottarmi
con la marmitta. Sono salita in sella che ero "io" e quando ne sono
scesa qualche ora dopo, eravamo "noi". Una volta smontati era chiaro
ad entrambi che i miei guantini di lana erano serviti a poco contro l'aria
invernale. Mi hai fatto avvicinare le mani al telaio ancora caldo per
riscaldarmi.
Da quel giorno ne sono passati tanti. Oggi, da zavorra
professionista, non mi sognerei mai di salire su una moto in infradito o senza le
necessarie protezioni. Qualche mese dopo a quel quarto appuntamento, con una
spedizione in terra tedesca, ci siamo procurati tutto l'occorrente per far si
che potessi seguirti senza correre inutili rischi: pantaloni e giacca in
cordura, stivali, protezioni su gomiti e schiena, guanti adeguati, casco.
La Corsica,
i Pirenei, più di mezza Italia...tanta strada è passata. Alla prima uscita
"seria" mi hai portata a Recco a mangiare la focaccia, ero cosi tesa
che quando sono scesa, dopo 10 ore ininterrotte in sella, mi faceva male
dappertutto. Ora a ripensarci mi viene quasi da ridere considerando che sono
talmente a mio agio che nei tratti in autostrada mi schiaccio sempre un
pisolino.
La musica
nelle orecchie, cantando a squarciagola tanto non ti sente nessuno, il vento
addosso, la velocità. Ognuno nel suo casco, in uno spazio privato che ti isola
dal mondo, eppure insieme, stretti l'uno all'altra. Il senso di libertà.
Andare, senza una meta, senza fermarsi, solo andare. Ancora un'altra strada,
scoprire cosa c'è dopo quella curva.
Ora ci sono io, che scarto fra la colonna di auto della
domenica sera. E' come lo immaginavo da bambina. E' meglio di come lo
immaginavo da bambina. E' la cosa più vicina a volare che io conosca.
fonte Pinterest
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